Adele & Saverio come Romeo & Giulietta

Conoscete Romeo e Giulietta e la loro triste storia?

Beh, non sono stati i soli amanti giovinetti infelici: pare che in Italia le storie d’amore coronate dal dramma, e da qualche nota magica, siano all’ordine del giorno.

A Catanzaro, in Calabria, Romeo e Giulietta sono meno noti di Adele e Saverio.
I due giovinetti, figli di nobili famiglie locali, vissero all’inizio dell’Ottocento.
Sebbene entrambe di nobili natali, come si è detto poc’anzi, i De Nobili ed i Maricola non apprezzavano minimamente l’idillio dei giovinetti e lo osteggiarono in ogni modo.

I più ostili alla coppia erano i fratelli di Adele: una volta resisi conto che la loro sorellina era solita amoreggiare con il bel Saverio Maricola, che fecero? La chiusero, ovviamente, a doppia mandata in casa, proibendole di continuare la relazione.

Ma al cuor non si comanda e bastava che il cavallo di Saverio si avvicinasse al palazzo, perché Adele trovasse il modo per affacciarsi a una finestra e scambiare languidi sguardi con l’innamorato.

Nonostante le proibizioni, i fanciulli non si arrendevano e tanto fecero che i fratelli di Adele, resisi conto del pericolo che li sovrastava, giunsero ad una ferale decisione: eliminare Saverio Maricola. Detto fatto: una sera il cavallo riportò a Catanzaro non il bel Saverio, ma il suo corpo privo di vita.

Adele si disperò, rifiutò qualsiasi conforto e la sua disperazione crebbe all’inverosimile quando capì che causa della morte dell’innamorato erano proprio i fratelli, ora in fuga all’isola di Cefalù.
Decise di scomparire e morire, virtualmente, e si chiuse per il resto della sua vita nel convento di clausura delle “Murate Vive” a Napoli.
E lì morì e, pare, fu sepolta.

Ma la sua anima, o meglio il suo spettro, non restarono a Napoli: a tutt’oggi pare che il fantasma della giovine, velato come una monaca, si muova nel palazzo di famiglia in centro a Catanzaro.

Il palazzo ospita oggi il comune e non pochi impiegati confermano che rumori inusuali, porte che si aprono e si chiudono all’improvviso ed oggetti che scompaiono e ricompaiono sono abbastanza all’ordine del giorno. Le stesse guardie giurate che controllano l’area di notte sostengono di scorgere, qualche volta, l’ombra della monaca che cerca la finestra da cui si affacciava per salutare ogni sera Saverio. La finestra è però stata murata da tempo e la ricerca è quindi destinata al fallimento.

 

Le Janas, le fatine della Sardegna, che abbandonarono l’isola dopo una danza sfrenata

Le Janas, creature a metà tra le streghe e le fate, hanno da sempre popolato l’immaginario dei sardi e di chi frequenta l’isola.
Piccole, delicate, con la pelle luminescente, arrivarono all’alba dei tempi da chissà dove con una ricchezza incredibile ed inimmaginabile per la mente umana e … scomparvero proprio a causa di questa ricchezza, lasciando gli umani soli e con un pugno di mosche…o meglio di cenere.

Secondo la leggenda della città di Macomer, le Janas e gli umani del luogo vivevano in pace ed in armonia e le fate partecipavano molto spesso alle feste del paese, non appena il sole tramontava per evitare che i suoi forti raggi bruciassero la loro pallida pelle lunare.
Ma un giorno arrivarono nel villaggio alcuni stranieri, secondo le voci, provenienti da Pisa.

Gli stranieri, invitati alla festa del villaggio, videro per la prima volta le Janas e restarono folgorati sì dalle creature, ma soprattutto dai ricami e dai tessuti preziosi con cui le vesti delle Janas erano fatti: panni intessuti di oro e di argento, bottoni in filigrana, bracciali scintillanti; una ricchezza enorme così vicina e, pareva, così facile da carpire. Ma non appena il primo straniero allungò le mani sui bottoni di una Janas, le altre sorelle accorsero al suo fianco e la portarono via.

Da quel momento, le Janas sparirono da Macomer e da tutta la Sardegna.
Nelle mani del ladro non restò che della cenere e così nelle abitazioni che la Janas lasciarono: solo cenere.

 

La bella Sicilia e il gatto levantino

Fin dall’infanzia ci hanno insegnato che l’antico nome della Sicilia era “Trinacria” e che tale nome aveva a che fare con i tre “capi” di questa isola che con la sua particolare forma di triangolo sta in fondo al nostro stivale.

Ma da dove è arrivato il nome “Sicilia”?

Una bella leggenda racconta che tale nome si deve a un gatto, un gatto levantino.
In tempi antichi, c’era in Libia una bella principessa che, appunto, si chiamava Sicilia.
Pupilla dell’occhio dei genitori, un oracolo predisse la di lei sicura morte, se non fosse stata allontanata per sempre dalla terra natale, a causa di un enorme mostro, un gatto levantino che l’avrebbe divorata.

Disperati ed incapaci di scegliere quale fosse il dolore minore, dopo molti pensieri e pianti, i genitori decisero di regalare a Sicilia almeno una possibilità, per quanto remota, di vita e fecero approntare una nave per farla veleggiare lontana dalle coste libiche.

La nave veleggiò per mesi sulle acque del Mediterraneo finché non approdò in una terra che pareva disabitata, seppure molto lussureggiante.
E disabitata lo era davvero, se non per un giovine che ad un certo punto apparve dal fitto fogliame e che si avvicinò alla piangente principessa.

L’isola era sì disabitata, ma non da sempre: c’era stato un tempo in cui l’isola era viva, abitata e la gente viveva, e bene, dei frutti della terra e del mare, ma la peste aveva ucciso tutti, tranne il giovine. Giovine pieno di spirito perché, colpito dalla bella Sicilia, non mancò, in termini galanti, di prospettarle una vita felice su una nuova terra di cui loro potevano essere, oltre che i legittimi regnanti, anche i progenitori di una nuova stirpe (immagino l’offerta sia stata fatta con più tatto e abili parole delle mie). E così fu che Trinacria divenne Sicilia, in onore della bella principessa di origine libica.

Secondo gli storici, come spesso accade, la leggenda ha più di qualche parvenza di verità: non solo il gatto levantino era l’impero bizantino la cui presenza in Sicilia non fu mai molto gradita, ma il termine Sicilia deriverebbe da “Sik” ovvero fico e “Elia”, ovvero olivo a significare , se ce ne fosse bisogno, quanto ricca e prospera fosse la terra.

barca a vela in mare aperto
la nave per salvar la principessa Sicilia di Roger Smith via Flickr

“’O munaciello” e la Napoli sotterranea

Se avete la fortuna di visitare Napoli, non perdete la possibilità di fare una puntata alla “Napoli sotterranea”, ovvero alla città che si nasconde, e bene, sotto quella che vediamo oggi. Guide preparate vi porteranno in luoghi incredibili, scavati nella morbida pietra e usati in tutte le epoche per i motivi più svariati: riserva d’acqua, tunnel segreti , rifugi antiaerei ed anche pozzi per i rifiuti.

Fin dai tempi più antichi la straordinaria friabilità del sottosuolo ha consentito lo scavo di canali e di tunnel e, quindi, la possibilità di raggiungere le falde acquifere ed approvvigionarsene tramite pozzi pubblici o privati.
Ma qualcuno doveva pur tenere puliti questi canali e questi pozzi e verificarne la portata: ecco i “monacelli” o “’o munaciello” come è conosciuto qui.

Piccoli, sottili, flessibili e agili, vestiti con lunghi mantelli ed un cappuccino, questi personaggi si muovevano perfettamente a loro agio nelle grotte e nei canali e, ovviamente, tramite questi avevano libero accesso anche alle corti sia pubbliche che private, quando qualche palazzo aveva un pozzo privato.

E così si diffuse l’usanza di far risalire la scomparsa di qualsiasi oggetto prezioso a “’o munaciello” che se ne sarebbe impossessato. E pare che ciò avvenisse davvero, ma soprattutto quando il padrone del pozzo dimenticava di saldare il prezzo pattuito della pulizia a “’o munaciello” che faceva di necessità virtù e recuperava il proprio compenso.

Voci maliziose raccontano anche di flirt tra serve e “’o munaciello”, e non solo serve.
Sarà questa una delle ragioni per cui “’o munaciello” non è esattamente uno spirito benamato dagli uomini napoletani?
Per saperne d più su “Napoli sotterranea” fate click su http://www.napolisotterranea.org/

 

Il leggendario Castello di Lagopesola e le orecchie “a sventola” dell’imperatore

L’imponente Castello di Lagopesole si erge massiccio sulla vallata di Vitalba, in Basilicata, una volta parte di quel regno appartenuto a Federico II di Svevia, figura magica e affascinante.

Non meno affascinanti le storie e le leggende che circondano la sua famiglia e i suoi domini. Il Castello di Lagopesole, ad esempio, è fulcro di ben due leggende: la triste vicenda della bella Elena, moglie di Manfredi, figlio di Federico II e l’imbarazzante storia del nonno di Federico II, ovvero quel Barbarossa a cui, in vecchiaia, pare, vennero enormi orecchie.

Ma iniziamo da Elena: perso regno e marito per mano degli Angiò, Elena venne rinchiusa nel Castello di Lagopesole, luogo in cui era stata davvero felice con la sua famiglia ed il suo Manfredi, e lì si lasciò morire di inedia.

Eppure qualcosa di lei e dell’amato restano in questo Castello e nella sua vallata: di notte, con la luna, chi si avventura per la valle dice di scorgere delle luci dietro alle finestre della fortezza, forse Elena che cerca di vedere il suo Manfredi senza riuscirci. E al contempo, non sono pochi coloro che affermano di aver visto correre su queste terre, sempre al plenilunio, un cavaliere vestito di verde che pare cercare qualcosa: forse Manfredi che cerca di tornare dalla sua amata Elena?

Molto più leggera e divertente la leggenda che circonda Federico il Barbarossa ed una delle teste che ornano le mura del Castello.

Questa testa, infatti, rappresenta un uomo con delle orecchie più lunghe dell’usuale e molti sono pronti a sostenere che si tratti del ritratto dell’imperatore che, in tarda età, si trovò a fare i conti con una crescita abnorme delle orecchie.

Per nascondere tale imbarazzante dettaglio, sua maestà pensò, proprio come si fa ora quando si è dotati di “orecchie a sventola”, di lasciarsi crescere la chioma, che, tuttavia, necessitava ogni tanto di una “spuntatina”.
Il barbiere subiva sempre una ben triste sorte dopo aver tagliato le imperiali chiome. Un giorno un giovane barbiere scampò al tranello mortale e per premiare la sua scaltrezza, Federico il Barbarossa gli concesse di aver salva la vita. La condizione suprema restava il patto di silenzio a proposito del piccolo difetto dell’imperatore.
Ed il silenzio venne sempre mantenuto dal barbiere che, per alleggerirsi l’anima del pesante segreto senza venir meno al giuramento, pensò di non far nulla di male sussurrandolo ad una buca che si trovava nei pressi del Castello.

E cosa successe, poi? Beh, proprio su quella buca crebbero delle canne che, ondeggiando al vento, parevano lamentarsi e irridere l’imperatore che “tiene orecchia asina” così come la testa grottesca del Castello.

 

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