C’è ancora la chiesetta, costruita coi tronchi dai prigionieri russi, durante la prima guerra mondiale, e la sua piccola campana. Il ghiacciaio, la morena, le rocce granitiche e quel cielo così spudoratamente limpido sopra le nuvole.
Quella volta erano arrivati la sera prima, per ultimi, Beatrice e il suo gemello, Giorgio. Il resto della comitiva era scattato in avanti quando dal sentiero il rifugio sembra già lì. Avevano fame i due gemelli e, seduti sulle rocce davanti al rifugio, stavano addentando i panini, estratti dello zaino, quando una voce imperiosa alle loro spalle urlò: “No. Prima questo!”
Giorgio si volta con il cipiglio che la sua giovane arroganza gli dipinge sul volto quando qualcuno lo contraddice. Silvio si sta avvicinando con due tazze di brodo fumanti e il ragazzo, voltandosi, sorride nel vedere quel fascio di muscoli sotto una barba brizzolata, sotto una berretta di lana a righe, che offre loro il suo brodo.
“A voi non v’ho mai visto. Da dove venite?” Chiede Silvio.
“Da Genova.” Risponde sicura Beatrice.
“Da Genova fin qui a pè?” Chiede il montanaro tra lo scherno e l’ironico.
“No, vede, mia sorella non ha capito, noi siamo saliti da Borzago, ci veniamo in vacanza.”
“Ah, beh, alora… vo’altre dovete imparare i segreti della montagna, avete del giudizio, voi, no coma chi altre che j’è rivè de corsa, des minüch fa eh, j’ha magnà e adess… sdraiati in branda. Voialtri due s’è rivé piano, come gente che misura le forze... e vegnì dal mar… Alla buon ora, bevè stò breüd! Caldo, va bevuto caldo.”
“A me non piace il brodo.” Tenta di contestare Giorgio.
“Poche storie. Bevi mona, è uno dei segreti della montagna: quando ci si ferma il brodo caldo rimette in forze.” Silvio aspetta che i ragazzini finiscano di bere, riprende le tazze e silenziosamente rientra nel rifugio.
In pochi lo avevano sentito parlare così a lungo. Silvio era un orso solitario, di una forza capace di fare un presentat’arm con un fusto di cannone, percorreva quasi tutti i giorni quel sentiero impervio, per il quale le guide prevedono circa tre ore e mezzo di cammino, in poco meno di un’ora e carico di provviste per rifornire il rifugio. E’ rimasto un personaggio mitico e qualcuno sostiene che il suo fantasma si aggiri tra la morena e il ghiacciaio, nelle notti di luna piena.
Beatrice e Giorgio ogni tanto lo ricordano e raccontano, quest’uomo simbolo, ad amici increduli che vengono a trovarli da Genova o da chissà dove. Vi è in realtà un gran traffico internazionale tra quelle cime che sembrano sempre deserte nelle fotografie in cui appare raramente la presenza umana.
Quel giorno lontano, i due gemelli, bevuto il brodo e mangiati i panini, mancavano ancora alcune ore prima che scendesse la notte, partirono in esplorazione del territorio.
Scenario di follia.
Trincee, camminamenti, sferette di granata. Una guerra guerreggiata a 2500 metri di quota, alcune testimonianze sono ancora lì, dopo cent’anni. Non tutto, molti reperti hanno finalmente trovato una degna collocazione nel Museo della guerra Adamellina, giù in val Rendena, a Spiazzo, dove nei locali della vecchia scuola elementare le grandi sale ospitano una documentazione storica recuperata negli anni.
Al museo, aperto nei periodi di vacanza invernale e tre mesi d’estate, nel pomeriggio, Beatrice e Giorgio ci erano andati, per l’ennesima volta, il giorno prima di risalire al Caré Alto. Come sempre, li ha accolti Frank che della guerra adamellina sa tutto e al museo fa la guida, il ricercatore e l’uscere. La sua figura, giovane, esile, riporta a personaggi d’altri tempi: alto circa un metro e novanta, basettoni che arrivano al mento, pare evocare ufficiali austrungarici piuttosto che ferventi irredentisti dell’inizio del secolo scorso.
E’ lui che ha finalmente illustrato a Beatrice la storia delle portatrici d’assi, ricordate in un mosaico sulla parete di un capitello a Gḯo, proprio all’inizio dei tornanti che dalla val Rendena introduco in val di Borzago dove la strada carrozzabile si inerpica tra i boschi che, quando si aprano e la giornata è buona, spalancano la vista sul ventaglio del massiccio dell’Adamello con la cima Caré Alto e il ghiacciaio, che si stagliano su un cielo color cobalto, mozza fiato.
Beatrice, le portatrici d’assi, le aveva sentite nominare fin da bambina ma faticava a capire. C’erano soldati austriaci e c’erano le donne che lavoravano come muli perché avevano fame e salivano "via per là, in val di Borzago e poi su fino al ghiacciaio”. Davvero era difficile capire da bambina cosa ci andassero a fare delle donne a tremila metri dove già non aveva senso la guerra.
Il fatto è che le donne costavano meno dei muli, 3 corone al giorno e due pagnotte a fine settimana, inoltre le donne si trovavano già sul posto mentre i muli avrebbero dovuto venire da lontano. Quindi le donne furono ingaggiate per trasportare il materiale che servì a costruire le baracche, dove i soldati tentavano di sopravvivere al gelo. Tra il 1915 e il 1918 quasi ogni giorno, a piedi, da Borzago, con qualsiasi tempo, e qui la neve raggiunge anche i quattro metri d’inverno, le donne salivano a rifornire il fronte di tutto il necessario per l’agonia di quella sopravvivenza assurda dei militari così splendidamente narrata nella sua drammaticità e dolore anche da Carlo Emilio Gadda nel libro Taccuino di Caporetto - diario di guerra e di prigionia.
Dalle munizioni alle vettovaglie, dalle stufe al legname, tantissimi materiali raggiunsero le vette, poi, a guerra finita, presero la strada del ritorno. La miseria in val Rendena regnò sovrana fino agli Sessanta e le genti del luogo inventarono la figura del recuperatore. Uomini, per lo più questa volta, che andavano verso le cime e si portavano a casa stufe, pale, legname, pezzi di teleferica e tutto quello che aiutava a sbarcare il lunario.
Poi arrivarono i turisti e con loro il benessere, allora dalle cantine e dai solai emersero i reperti bellici e così nacque il museo della Guerra bianca Adamellina, a Spiazzo. Il paese nel ‘15-‘18 non esisteva ancora, diventò Comune nel 1928 accorpando quelle che ora sono le sue frazioni: Mortaso, Fisto, Ches e Borzago. Questi borghi sorgono sparpagliati a distanza dall’antica chiesa, con i suoi affreschi sulla facciata cinquecentesca e i resti, nell’ab-side, di un tempio pagano.
Proprio di fronte alla chiesa, il Museo e la sua raccolta di bottigliette di vetro, smerigliato dal tempo, le migliaia di fotografie e le racchette da neve, i cappottoni di lana e gli stivali di paglia, e slitte e lancia bombe. Un tuffo nella storia, nel delirio della guerra e la forza della montagna, con Frank che spiega paziente.
Beatrice e Giorgio sono venuti a vivere a Borzago da adulti, Genova e il mare sono lontano. Talvolta i gemelli sentono la mancanza dell’orizzonte, dei cieli lunghi che toccano il mare, non come qui dove, raccontano i trentini: “Le montagne reggono il cielo.”
E’ allora che salutano i reciproci figli e consorti e salgono sulle vette arrampicandosi per la valle angusta, guardano il mosaico delle portatrici d’asse, proseguono oltrepassando le antiche ca’ da mont, dove nelle stagioni di mezzo alpeggiavano pecore e mucche, ora trasformate in confortevoli baite, alcune in agritour con camere raffinate e un ristorante dalla cucina tipica e i vini profumati.
Oggi, come quarant’anni prima Beatrice e Giorgio sono stati lì a guardare l’alba sulle cime.
Ora è l’imbrunire, i due gemelli scendono dal rifugio con calma, a piedi, tra i boschi della val di Borzago, col suo torrente sul fondo. Giorgio dice: ”Chissà, se siamo fortunati incontriamo di nuovo l’orso.” Ma questa è un’altra storia.
Autore: Susanna Merzek
Concorso letterario "Racconta la tua città"
Copertina: foto di Terror Noize