Grosseto, devi iniziare a vederla dal contorno. Il mare, prima, grande che ci si potrebbe affogare, con quelle spiagge fine come oro, oro che brucia e che luccica, che si infila tra le dita dei piedi, finché, sul bagnasciuga, si scopre a volte una flottiglia di conchiglie rotte, come cocci che raccontano un’altra vita. Il mare su cui si affacciano a tratti scogli e le onde spruzzano il loro viso grigio e attonito, in un gioco ora fanciullo, ora di malcelata ira verso un genere umano forse non sempre buono.
Grosseto, devi vederla prima dalla campagna bionda di grano, quando il caldo ha imporporato i sorridenti erbai di papaveri a frotte, che si confondono a creare macchie come un rossore su guance di donna. Devi vedere questa campagna distesa, dove spuntano, salendo verso l’Amiata, righe di vigneti, capelli pettinati in lunghi filari, interrotti da chiazze di olivi d’argento, dove, a volte, col volo a circolo, pronta ad afferrare la preda, qualche poiana interrompe la chiarezza del cielo.
Grosseto devi prima vederlo e conoscerlo e imparare ad amarlo nei boschi di quel verde maturo, deciso, che diventa di un azzurro quasi come la notte sul monte, dove i lecci lasciano il posto ai castagni. Devi conoscere prima la volpe silenziosa, il capriolo che si scaglia, con un moto improvviso e un poco bambino, nel mezzo alla strada, buona strada che taglia a metà, passando, la distesa immensa della natura maremmana.
Grosseto devi conoscerlo dal mare al monte, attraverso la pianura dove si scorge a malapena qualche pino a delineare l’orizzonte, attraverso la calma collina, buona che sembra un ventre materno e mite e dolce nel declinare, inghiottita dal colore di rosa di un’alba inattesa.
Grosseto, prima di condannarlo a un anonimato sciocco, devi conoscerlo così, nella sua calma, nella sua verità di terra e frasche, nella sua verità di terra contadina, donata ai semplici in parte dalla mano buona di Dio, in parte da un’opera tutta umana di bonifica di grandi acquitrini.
Solo poi, così, dopo aver visto tanta bellezza e tanta nudità, dopo aver disteso il tuo sguardo, aver seguito con il tuo corpo la rotondità delle forme dei grandi casolari, che, anche negli angoli aguzzi, hanno un che di flessibile e buono; solo dopo potrai avventurarti, sorta di nuovo pellegrino in luogo straniero, in questa cittadina di provincia (se ancora le provincie hanno un senso), in questa città che si presenta tutta aperta e tutta giovane come me che scrivo di lei.
Chi dicesse, pensando di offendere, che Grosseto è senza storia direbbe una grande verità. Ma non perché non siano sorte un tempo mura che incorniciassero il volto di sposa di questo mio luogo, bensì perché essa sa rinnovarsi continuamente e forse anche, dimenticata dietro nomi più alti, perché sa conservare la sua freschezza di sposa e cancellare le tracce lasciate da altri mariti. Forse perché la buona popolazione che la abitò non ebbe mai manie di grandezza e preferì conservarsi contadina e semplice.
Per questo se metterai piede in questa città, lascia le aspirazioni di vedere e toccare e adorare marmi e pitture sapienti. La bellezza è qui questa semplicità un po’ rustica –mai rozza- con cui si contraddistinguono i muri e i giardini delle case.
Grosseto ha cortili ampi e grandi alberi che bucano i marciapiedi, che ne escono su con qualche cosa che ha ancora un che di felice, di vivo, che ancora ha un che di campestre e gioioso.
Grosseto ha le case dove la gente si conosce ancora abbastanza, dove ci sono molte finestre, molti giardini, molti cani che si affacciano dai balconi e molte vecchie signore che credono in Dio, che si ricordano altri tempi e molti vecchi signori che, poco fuori, hanno un orticello dove tirano su un po’ di patate e due pomodori.
Non è una città di traffico, se non in qualche ora e comunque mai da coda. Non è una città di gite organizzate e di guide turistiche. È una città di gente, che passa, che va, che viene, che compra, frequenta il cinema, la palestra, si scambia a volte un sorriso, a volte niente.
Se questo lo consideri triste, triste è Grosseto, soprattutto quando piove e la pioggia allaga la Stazione, dove pochi treni fanno sosta, certi pullman si fermano a caricare gente (studenti, soprattutto) per ricondurli alle loro case, disperse sul vasto territorio di questa città quasi dimenticata.
Se credi che sia triste non avere nel corso buoni saltimbanchi che con giochi di prestigio intrattengano i nostri giorni noiosi, allora sì, triste è questa città dove sono nata e che conosco nei suoi occhi che si perdono nei tramonti più insignificanti.
Se credi triste che i giovani se ne debbano andare a studiare altrove, allora ecco la più triste città, priva di troppe facoltà, priva di molte possibilità e persino di un nome.
Se credi triste che molti non sappiano e non si interessino della bontà mite di questo luogo senza origini, di questo luogo come passo tra due universi; se credi triste che nessuno venga, nessuno passi, nessuno si riconosca e soprattutto nessuno scriva elogi di questa terra buona, allora forse è triste e quasi disperato questo mio scrivere.
Ma Grosseto non è luogo di felicità o di tristezza, non è luogo di gite di un mese, un anno o un giorno. È un luogo di vita, dove bello come non mai è trovare una casetta, un poco fuori, metter su famiglia e poi scoprire che lì si va a scuola, lì c’è quel negozio e di là vive la brava signora Anna, che ha tanta vita da raccontare e si sente un poco sola.
Non è città per gente che voglia conoscere o vedere l’arte e la profonda onda della vita; mite e infinitamente piana è Grosseto, città di mare, di monte, di terra, di contadini che vanno, che tornano, che passano, di brave persone, dove qualche volta qualche ubriaco matteggia, dove si può ancora possedere un campo, un orto, un olivo almeno. E se non altro se stessi, la propria vita umile e semplice.
Questa è Grosseto e in due modi soltanto si può amare: o passando, correndo via su un’automobile che non ha tempo, che ha la fretta scritta sugli sportelli, trascinando via pezzi di paesaggio, immensi campi, alberi e pecore e boschi e mari e pinete fitte e qualche paesino, piano o arroccato su un sasso; o fermandosi per sempre, alla ricerca della pace, di una casa dove non servano bellezze, nomi illustri, famosi sorrisi ad alto prezzo, grandi targhe di un passato che non si dimentica e la vita frenetica, trascinata via, sempre più in fretta, dalla morte, che bussa alle porte, più spesso, di chi meno l’aspetta.
Autore: Giada Perciballi
Premio letterario "Racconta la tua città"
Copertina: foto di Paolo Fefè via flickr