La costa, alta e rocciosa, gli parlava di lunghe passeggiate, ai tempi in cui l’amore pervadeva ogni attimo dei suoi giorni, quelli in cui la sua mano stringeva quella di Lucia e i suoi occhi erano costantemente incorniciati dall’espressione del sorriso.
Il sole, stranamente tiepido quel giorno di Luglio, regalava alle ombre forme tradizionali. Un tempo invece aveva dipinto animali e creature mitologiche, da guardare e commentare, fra un bacio e un altro. Quel sole non scaldava più. Era solo un arredo di quella vista, alla quale il colonnello dedicava ogni giorno mezz’ora della sua passeggiata.
Non lavorava più da molti anni e il suo passo, senza che lui se ne accorgesse, era diventato sempre più lento. Così, al passare dei giorni, in quell’ora di passeggiata, il percorso era diventato sempre più breve. Una volta arrivava almeno fino alla villa dei Farisella. Adesso si accontentava di ammirarne i balconi pieni di gerani, da quella panchina, a trecento metri, che i ragazzini del quartiere lasciavano libera quando arrivava l’ora in cui lui sarebbe apparso dal sentiero. C’era odore di gelsomino quel giorno e niente sembrava presagire cosa sarebbe successo.
Mattia, uno dei ragazzini, aveva visto Cassia arrivare zoppicando e si era voltato verso i compagni di giochi, come a chiedere loro se ne sapessero il motivo. Uno di essi, Luca, che abitava nella casa di fronte a quella dell’anziano, quella mattina non l’aveva visto uscire, come di solito accadeva alle nove e, quando Mattia gli aveva citofonato per andare al lungomare, era sceso in strada e aveva visto la serranda della finestra del colonnello ancora abbassata. Quel giorno Cassia era andato a sedersi su quella panchina senza il giornale in mano, come invece accadeva di solito. Era affaticato e turbato. I suoi occhi non avevano dispensato a quei ragazzini nemmeno un sorriso al suo passaggio, né un cenno di saluto. Si massaggiava continuamente il ginocchio sinistro.
L’altra mano invece, come tutti i giorni, non smetteva di torturare il piccolo bottone di feltro nero che il colonnello teneva appuntato al bavero della giacca sin da quando era diventato vedovo.
Mattia gli si avvicinò.
“Buongiorno, colonnello. Tutto bene?”
“Buongiorno, Mattia, tutto bene; e tu come stai?”
La mano che massaggiava si fermò per un attimo, il tempo di pronunciare quella frase.
Poi ricominciò.
“Cosa si è fatto al ginocchio?”
“Nulla, ho solo urtato un mobile mentre uscivo; oggi il sole non scalda.” “Già.”
Mattia vide una nuvola che si apprestava a coprire il sole.
“Colonello, dice che pioverà?”
“No, non pioverà.”
Il colonnello ci azzeccava sempre: decenni al servizio meteorologico dell’Aeronautica gli avevano insegnato a prevedere quando una nuvola portava pioggia e quando invece tristezza, come quel giorno. Mattia tornò dai suoi amici, a parlare di calcio.
Una barca a vela passò poco dopo davanti al belvedere e attraccò pochi metri più in là, scomparendo alla vista. Il colonnello riconobbe chi c’era a bordo e si affrettò ad alzarsi e ad avvicinarsi zoppicando al parapetto per guardare giù, vicino al molo. Un uomo anziano scese dalla barca, con un cappello da marinaio e pantaloncini corti bianchi.
“Eugenio!”, chiamò il colonnello.
L’uomo sollevò lo sguardo.
“Eugenio!”, ripeté Cassia.
L’uomo sorrise e aprì le braccia. Il colonnello si voltò verso la scala che portava giù e vi si diresse sorridendo. Avrebbe voluto correre verso il molo. L’uomo intanto, finito di legare la barca, si avviò su per la scala. S’incontrarono a metà altezza e si abbracciarono.
“Romeo! Come stai? Quanto tempo.”
“Eugenio, fratello mio, io sto bene, un po’ acciaccato ma vivo; e tu?”
“Io non riesco a stare sulla terra ferma per più di un giorno, lo sai, così oggi ho fatto un giro verso Portofino e per la prima volta non volevo più tornare a casa; allora ho deciso di passare da qui, la cara vecchia Camogli.”
“E come mai?”
“Non so, questi anni in Liguria stanno cominciando a diventare troppi: mi manca la mia Puglia, la roccia calcarea, l’odore delle pizze fritte.”
“Le pizze fritte, quel profumo, che meraviglia, quando sono venuto a trovarti; i Liguri fanno solo focacce.”
“Già.”
Risero.
“Non dirmi che vuoi tornare.”
“Magari, ma ormai non c’è più nessuno ad aspettarmi, sono morti tutti, parenti, amici e nemici; e tu nessuna nostalgia di Gaeta?” “Certo, ma anche i miei nemici sono morti quasi tutti; resti solo tu.” Risero di nuovo. “Mi aspetti cinque minuti che sistemo due cose nella barca e ci andiamo a fare un caffè?”
“Va bene, nel frattempo risalgo, perché ci metto un po’ ad arrivare su.” Il colonnello affrontò il primo gradino e nel momento esatto in cui sollevò la gamba per salire sentì un “crack”. Il ginocchio cedette e lui cadde in avanti, urtando col viso su uno spigolo. Rimase lì, da solo, nascosto alla vista sia del suo amico, che intanto era arrivato giù al molo, sia dei ragazzini sul belvedere. Dalla ferita sulla fronte il sangue si avventurò lungo il profilo dello scalino, giù verso la ringhiera. Passarono dieci minuti prima che l’amico, risalendo, lo trovasse, disteso e pallido. Urlò e i ragazzini si affacciarono dal belvedere. Mattia corse giù. Il marinaio chiamò un’ambulanza.
Quando questa arrivò, i ragazzini rimasero immobili mentre la barella era portata su per le scale.
Lucrezia Cassia aveva quarantatré anni quando mi ha raccontato della fatale caduta di suo padre, e consumò l’intero pacchetto di fazzoletti di carta che le avevo offerto. Ho immaginato quella scena dieci, cento, mille volte, e c’è sempre stato un particolare che non torna. Una volta ho creduto fosse l’odore di gelsomini, un’altra il cappello del marinaio, un’altra ancora lo sguardo impietrito dei ragazzini. Poi ho pensato che forse è proprio quella caduta che non quadra. Non quadra con il ritratto eroico che Lucrezia mi ha sempre tracciato di suo padre, quando ancora ci abbracciavamo all’ombra di quegli stessi pini marittimi. Non quadra come lo stare lontani, come l’essersi lasciati per colpa di una situazione che lei diceva insostenibile. Non quadra perché dei nostri abbracci il mare mi porta, ogni giorno, l’eco e la luna mi racconta, come fa una nonna con uno dei suoi nipoti.
Quando incontro Mattia, che ora ha vent’anni, vedo nei suoi occhi l’immagine di quel vecchio e mi appare più nitida che nei racconti della mia ex-amante. Credo che un giorno lui sarà molto più simile al colonnello di come l’ho immaginato prelevando le parole dalle dolci labbra di Lucrezia e saprà prevedere quando una nuvola porterà pioggia o tristezza.
Lei mi ha detto poco di quella Lucia. Mi ha raccontato di più del sorriso con cui suo padre gliene parlava. E allora, senza vederne una foto, ho creduto di immaginarla perfettamente, con i capelli raccolti e una spilla sul vestito, di quelle dorate con i brillantini dentro, magari a forma di nota musicale o di gabbiano. L’ho immaginata passeggiare con quell’uomo e chiedergli cosa avrebbero portato le nuvole. L’ho immaginata anche in quel giorno in cui gli ha comunicato la sua decisione di lasciarlo, perché l’amore era andato in ferie o perché magari la loro situazione era ancora più complicata di quella mia con Lucrezia. Chissà se anche Lucia aveva un figlio in nome del quale aveva consumato quella rottura e aveva preferito rimanere con un marito che non amava più, per quieto vivere o per paura di far morire il sorriso negli occhi della sua creatura.
L’amaro in bocca di lui. Quello invece non ho bisogno di immaginarlo, perché è vivo in me, come il riflesso del sole in queste onde, che osservo da questa panchina. Laggiù la villa dei Farisella non ha più gerani, ma solo i segni dell’abbandono. Già, l’abbandono.
Autore: Gianni Contarino
Premio Letterario "Racconta la tua città"
Foto di Copertina: Camogli, foto di Stefano Viola