Il mio viaggio a Venosa mi svela la città più antica della Basilicata, una terra che ogni volta mi regala le sembianze del pianeta come dovrebbe essere, preservato nel suo splendore incontaminato, tra vette montuose e fertili campagne solcate da quattro fiumi nel limitare di due mari, lo Ionio e il Tirreno. Montagne e pianure. Mari e fiumi. E un vulcano spento, il Vulture, con le sue trenta miglia di circonferenza, e trenta miglia distante dalla più vicina sponda dell’Adriatico.
Venosa giace alle sue pendici, immersa tra i floridi vigneti del celebre Aglianico del Vulture, introdotto in questa zona dai greci mentre i romani fondavano Roma. Le essenze elleniche si spargono tra le impronte romane in questo lembo di Lucania, a nord-est in provincia di Potenza, al confine con la Puglia.
Lungo i declivi rigogliosi, Venosa appare “lunga e piana, pendente ai lati”, come la descriveva nel ‘500 il poeta indigeno Luigi Tansillo, rimandando alle due valli che la delimitano, la Valle del Reale e la Valle del Ruscello, in cui scorrono i due fiumi. I latini la fondarono nel 291 a.C e la chiamarono “Venusia”, forse perché vi ravvisarono la stessa bellezza di Venus, dea dell’amore.
Conosciuta soprattutto per essere il paese d’origine del sommo poeta latino Orazio, la città lega la sua fama all’immenso patrimonio di età romana e medievale disseminato nel borgo a ogni passo e in gran parte racchiuso nel Parco Archeologico che conserva i resti monumentali della colonia latina.
L’anfiteatro, le terme, la domus testimoniano la “vanitas”, vessillo di un antico splendore, cristallizzato tra reperti, ipotesi e realtà. E penso che questo immane patrimonio storico non abbia ancora trovato dignitosa valorizzazione del suo estremo valore. L'incuria generale è imperdonabile, eppure il reato in flagrante lo consuma l’Abbazia dell’Incompiuta. Che mi rapisce. Mi ritrovo tra filari di colonne che abbozzano navate, il pavimento è prato, il tetto è cielo.
Eretta in gran parte utilizzando elementi di recupero provenienti dalle adiacenti rovine romane, l’Abbazia vide i lavori di costruzione interrompersi nel corso del Trecento e non fu mai portata a compimento. Rimase, pertanto, "Incompiuta" e incombe sullo sfondo del parco con quei vuoti che solo gli occhi della mente possono completare.
I sontuosi monumenti del centro storico, le iscrizioni su pietra, le epigrafi e gli inserti marmorei di cui la città è straordinariamente ricca, ne fanno un museo a cielo aperto, come dovrebbe predisporsi lo spirito, qui straordinariamente ispirato dal sentimento lirico di Quinto Orazio Flacco, nato a Venosa nel 65 a.C.
E' irrinunciabile la visita alla sua “presunta casa”. Accedo in questa domus patrizia e scopro che la dimora risalirebbe per ad almeno un secolo dopo la nascita del poeta. La notizia è deludente ma il luogo racchiude comunque un suggestivo valore architettonico e storico, e rievoca i noti aforismi del poeta che si tramandano da duemila anni. “Carpe diem, quam minimum credula postero”. Godi il giorno che passa, confidando meno che puoi nel domani.
L’ode oraziana mi esorta a cogliere, con perdonabile stile prosaico, le opportunità degustative delle specialità lucane fra cui spiccano, per dolcezza e croccantezza, i Peperoni Cruschi di Senise. Raccolti in estate, vengono lasciati asciugare su teli per poi essere legati con ago e filo, e appesi in grandi "serte" (collane), esposte al sole sugli usci delle case, per terminare la fase di essiccazione.
L’infinita poetica del vate lucano mi sospinge all’ineludibile assaggio di “Lagane, ceci e porri”, immortalate dallo stesso Orazio nelle sue Satire. Mi avvolgo nel gusto di un rustico amalgama di legumi locali e fettucce fatte in casa, larghe e spesse come i solchi della tradizione agreste lucana.
Avvolta dai filari dei vigneti da cui sgorga il celebre Aglianico del Vulture, qui fieramente appellato il “Barolo del sud”, “nunc est bibendum” (Orazio, Odi). Ora si deve bere.
Autore: Sabrina Merolla
Premio letterario "Racconta la tua città"
Copertina: foto di Sabrina Merolla