È con questo spirito che Walter, all’alba, riempie di vita la giornata da iniziare. Mentre attende l’uscita del caffè in cucina – aroma ristoratore per risvegliare il corpo – si affaccia dalla propria teca di vetro: un attico romano. Dalla finestra riempie di aria invernale i polmoni, stretto nella felpa e con l’immancabile sigaretta. Sbadiglia al nuovo giorno, e indugia a scrutare la piana sottostante. Ebbene sì, Walter è un privilegiato cittadino dell’Urbe, che gli ha portato in dono la vista della Caffarella, macchia verde tra due grandi arterie stradali, la Cristoforo Colombo e l’Appia. È il regalo quotidiano che questo uomo riceve, senza imballaggi né biglietti d’auguri. Con gli occhi lucidi per il freddo, sorseggia il suo caffè, fuma, e osserva.
Una coltre azzurrina e un po’ sfilacciata nei contorni nasconde il verde della distesa. Svettano intorno alberi smagriti delle loro foglie, nostalgici dei bei tempi primaverili, con i loro tronchi pieni di cicatrici e vita. La nebbia, custode della piana, sembra quasi un mimo, con i suoi lenti gesti sotto le prime pennellate rosa dell’alba. Non vuole cedere il passo ad altri figuranti: si attarda nei prati, sagome fini si nascondono tra i cespugli, sempre più fini vapori, poi svaniscono. Ecco un raggio di sole. Walter è ancora in casa, indossa la sua maschera, allaccia le scarpe – una sistemata veloce ai capelli, gel – e poi, direzione negozio. È meticoloso Walter, con quell’aria sognante tiene testa alle noiose clienti senza perdere né pazienza né sorriso. Ah, quanti colpi di spazzola avrebbe voluto dare a quei crani salottieri, pavoni sotto i loro colpi di sole e meches, occhi in cerca di approvazione forzata davanti lo specchio. – Basta che paghino – era il suo mantra, così dal martedì al sabato. Per il resto, le chiacchiere vanno nel vuoto, il nulla appartiene al nulla.
Al termine del giorno, Walter ha un rito: fermarsi a casa di Gino.
Insomma, per il catasto non si tratta di un immobile uso abitazione, anzi, è pienamente un mobile adattato a tetto sulla testa, privo di qualsiasi documento a dichiararne l’esistenza. Gino e la sua roulotte: un gioiello di inventiva umana in pochi metri quadrati, incastonato in uno spiazzo al finire di una strada e la recinzione della Caffarella. Sembra essere sempre stato lì – intendo Gino. Dovrebbe avere circa cinquanta anni, ma il tempo è relativo, e lui appare come un perenne presente. Certo, la definizione barbone gli si addice. Una barba biondiccia, ogni tanto curata, spesso tramuta in Medusa con mille serpi in tutte le direzioni. Cerca di fare del suo meglio, con la ferraglia stanata dentro i cassonetti dell’immondizia rende giustizia alla fantasia. Nascono audaci soprammobili, schegge impazzite da corpi acuminati, portapane in attesa di tovaglioli ricamati e grano lavorato, linee umane da appendere alla luce di candele. È un maestro Gino – così si fa chiamare. Piano piano il quartiere è diventato suo allievo, e le sue storie sono giunte anche ai controllori nella metropolitana, da Furio Camillo a Colli Albani. Ogni tanto le lamentele sembrano far vacillare la roulotte, ma tra il grigiore urbano il maestro, in questo spicchio di Roma, mantiene saldo un posto d’onore. Walter lo conosce da quando bambino, insieme alla combriccola, andava a bussare alla porta azzurra dell’abitacolo, pensando che uscisse chissà quale orrendo mostro. E invece sbucava Gino, allora ragazzo, con la tuta blu da meccanico dei sentimenti, pinze e viti nelle tasche, cappello fatto col giornale, e una risata di chi non conosce tristezza di sé. Che poi, nessuno sa il suo vero nome: maestro è sufficiente, chissà quale anagrafe lo ha realmente conosciuto.
Walter si presenta dal suo amico con la spesa, e come lui molti del vicinato: aiuti ben accetti. Decine di case intorno hanno dei manufatti firmati Gino, prezzi modici, a discrezione del committente. Ci campa il maestro, non scialacqua, cinghia stretta, ma il risultato è una vita dignitosa. Fuori dalle righe, senza dubbio, di certo difficile, aspra e a volte spietata: così lui ha scelto, così prosegue.
Narra il nostro Gino, dipinge a chi ascolta la sua Caffarella, quella dell’alba e del tramonto, del freddo inverno e della brina sui prati, una corazza poetica per il miracolo della natura. Si stupisce il nostro amico ogni giorno, ogni dettaglio che scopre è meraviglia, un tassello in più per la consapevolezza del mondo. Si dilunga nel raccontare dei passeri con il loro nido sopra il ninfeo di Egeria, con l’acqua ricoperta di minuscole piante, un telo verde acceso di forma all’incirca rettangolare, cinguettano i pennuti e lui ci parla. Che lo prendano pure per matto i ciclisti della domenica di passaggio – non sanno quali segreti vengono confessati al maestro, quanti aneddoti del parco sono svelati.
Walter lo ammira.
Una mattina - come sempre caffè e sigaretta in finestra – ha guardato la piana, la nebbia addormentata, e lo spiazzo. Gino se ne è andato, costruisce sogni di metallo in qualche altra città. Sono rimasti la roulotte, qualche vite, e molte case con ferree sculture. Molti sono delusi di quell’abbandono. Il quartiere era la casa del maestro, o forse una piazzola di sosta nella sua vita da errante.
Autore: Gabriele Salini
Premio letterario "Racconta la tua città"
Copertina: foto di Emanuele via flickr