Eppure non è affatto una brutta città, la mia città, ha la sua vivacità, un passato prossimo produttivo, un passato remoto strategico, un sogno d’arte che guarda al futuro. Ha la bizzarria dell’imperfezione, perché è circondata da fiumi tranne che per un tratto, perché “c’è tutto, anzi quasi”, perché nelle classifiche (…oh, questa manìa delle classifiche…) è sempre messa benino, ma non è mai in cima. C’è sempre qualcosa da finire, ma intanto, questa cosa (che sia un parco, un palazzo, una pista ciclabile) è incominciata.
Insomma, non è il massimo, ma ci vivrei. Ci vivo, a dire il vero, da sempre e quando la vita per un decennio mi ha portato un po’ più in là ho percepito che il concetto di “lontano” si declina in mille sfumature che vanno ben oltre la “distanza”.
Parte in Vespa il mio tour per Pontedera, omaggio obbligato per i lavoratori e le lavoratrici che in Piaggio hanno per anni avvitato bulloni, schiacciato presse, assemblato pezzi, per dare all’Italia il ronzìo delle due ruote più bello dal dopoguerra e dal boom economico in poi. E’ fatta anche di suoni, questa città, di rumori che la identificano, come la sirena della fabbrica che la mattina dà l’avvio alla giornata lavorativa e che da anni, con la ritualità di un campanile laico, chiama la comunità a raccolta. Una comunità che nel tempo non si è fatta meno fedele, ma di certo meno numerosa. Dei dodicimila addetti che fino agli anni ‘ottanta vestivano la tuta blu, poco più di tremila portano avanti ora il progetto geniale nato in quest’alveare di idee che riempie le strade del mondo con la Vespa, con l’Ape, e che per brevissimo tratto ha tentato davvero di sfidare il cielo con i velivoli a motore.
Linea sinuosa, ruota bassa, appeal italiano, per le due ruote che continuano ad affascinare il mondo! La mia Vespa esce di fabbrica e incontra subito il bello: la biblioteca comunale (libri, luce, spazio) che ridà vita ad un’ala di stabilimento non più in funzione. “Archeologia industriale”, si è detto, “riuso di aree produttive dismesse”. Entro e mi si affaccia un nuovo titolo alla mente: “ragazzi che studiano dove i nonni progettavano il futuro dei nipoti”. Solo il tempo divide le competenze dei vecchi dalle conoscenze in crescita dei loro virgulti: là dove c’era un pressa, oggi c’è un tablet, ma soprattutto c’è ancora una città, che è cresciuta –anche- inventandosi una linea di continuità tra generazioni. Spazi vecchi resi nuovi, nomi antichi: come quello di questa nuova biblioteca, “Giovanni Gronchi”, già presidente della Repubblica, pontederese. Finalmente in città gli abbiamo dato qualcosa in più di uno spazio erboso dove riposare in pace.
Fabbrica, cultura, museo: secondo la direzione ovest-est che ha preso la mia Vespa or ora uscita dal suo luogo di produzione, superata la biblioteca, si infittiscono gli accenti che ascolto in questa strada. A sinistra i ricercatori del Polo tecnologico Sant’Anna lavorano ad arti bionici, a strumenti medicali computerizzati, a dare un cuore alla robotica che qui da anni è di casa. A destra, il Museo che ospita la storia moderna di un Paese percorso in lungo e largo sulle due ruote. Se Gregory Peck e Audrey Hepburn passassero oggi da qui, non saprebbero quale scooter scegliere –tra le centinaia di modelli storici conservati- per fare il giro della città. E magari, anziché cercare Trinità dei Monti o Piazza di Spagna….
…Sì, potrebbero affiancarmi nel mio viaggio, un po’ centrifugo direi, che per ora lambisce la città e ancora non la attraversa. E allora via, verso la periferia (non è, del resto, Pontedera stessa, una grande periferia?), verso la pianura che porta in città vento di mare. Qui le pale eoliche trasformano la forza della natura e la rendono riutilizzabile, modificano l’energia cinetica in meccanica e poi in elettrica, modificano il paesaggio e svettano come nuovi punti cardinali. Le vedo, rientrando a casa, da chilometri di distanza, stelle polari di una nuova geometria dello spazio.
Prosegue il mio viaggio per la città riavvicinandomi alle case. In bicicletta, questa volta, perché sono queste le uniche due ruote che possiedo (la Vespa è il sogno), naturali propagazioni dei miei movimenti. Mi concedo la lunga passeggiata lungo l’argine del fiume che ci dà il nome, l’Era, un’oasi tra campi e acqua dove non arriva il rumore delle auto né l’afa piatta dell’estate. E poi l’argine dell’Arno, attraverso le piste ciclabili più centrali troppo spesso interrotte dall’asfalto; giro intorno ad un laghetto artificiale, ampio quanto basta a formare un lungo periplo per podisti. Lì si riposano le anatre tuffatrici nel loro percorso migratorio, fanno il nido le folaghe, si infrattano nel canneto fitto i conigli selvatici mentre la tartaruga dalle guance rosse incede indisturbata, aliena a questo habitat. Da lì i nostri avi hanno estratto terra, hanno impastato creta, hanno dato forma ai mattoni, cotti poi nelle fornaci ora dismesse che danno nome alla zona, che hanno dato pane alla gente. Anche dalle pianure puoi vedere d’estate le stelle cadenti o l’eclissi parziale di luna, se trovi un luogo come questo a due passi dal centro, dove però, calato il sole, si fa buio fitto…
Pedalo fino al punto di fusione dei due fiumi, dove l’Era continua la sua strada verso il mare entrando nell’alveo dell’Arno dall’ampia portata. Lì c’è un battello che ci aspetta, “Andrea, il battello fluviale”, il mezzo di trasporto (a fini turistici e didattici) che ha messo pace tra l’Arno e Pontedera, dopo oltre cinquant’anni di malcelata insofferenza e estraneità. Fino a tutto il secondo dopoguerra le rive del fiume erano spiagge e refrigerio per le estati povere dei pontederesi; per fare il bagno bastava un tuffo mentre un servizio navetta assicurava la traversata sicura a chi volesse giungere all’altra riva. Poi il fiume divenne ricettacolo di rifiuti, di scarichi industriali, via veloce allo smaltimento dei veleni. Smise di respirare, limitandosi all’esalazione di intrugli conciari e di carcasse di pesci morti. Ci limitammo a tapparci il naso in fretta e a cercare nuovi lidi, mentre più lentamente si installarono depuratori industriali e si promossero “politiche ecologiche”. Diversi decenni ci sono voluti perché il fiume tornasse ad ossigenarsi; le acque torbide e maleodoranti a poco a poco si sono ripopolate, ma di questa lenta rinascita avevamo fino ad oggi solo rari testimoni: qualche pescatore incallito e i ragazzi della squadra dei canottieri, sentinelle costanti dell’ennesima rinascita dell’Arno. E dopo che il battello Andrea ci ha trasportato controcorrente sul nastro d’acqua su cui “si specchia il firmamento” (azzardata definizione di una ballata preindustriale), vediamo rientrando in città un altro totem postmoderno che segna lo skyline pontederese: le cateratte che in caso di piena, circostanza frequente, convogliano le acque nel canale scolmatore, alleggerendo la portata dell’Arno e scongiurando l’alluvione su Pisa. Il 4 novembre 1966 è una data che qui ricordano bene, tra un gesto scaramantico e una foto d’epoca salvata dalle acque. Abbiamo avuto anche noi i nostri angeli del fango e alle prime piogge d’autunno molti tra loro, che ormai hanno visto tanta acqua scorrere sotto i ponti, misurano con occhio esperto (mani incrociate dietro la schiena) l’innalzarsi del livello del fiume, meglio di qualsiasi linea idrometrica.
E finalmente entro nel cuore della mia città. Entro in centro a piedi e percorro quelle direttrici che hanno fatto di questa città un “punto nodale”. Arrivano dai paesi vicini tutte le mattine pullman fitti di studenti di ogni età; qua si arriva per ricorrere alle cure ospedaliere, per gli acquisti, per le banche, per gli uffici. Mi accorgo di essere nel centro di una città “di servizi”, ma sono i volti e le voci che mi si imprimono negli occhi e mi chiedono si parli un po’ anche di loro.
E allora il mio tour imperfetto si fa corale e ogni persona che incontro si associa all’ultimo tratto del mio percorso. Con i pontederesi più vecchi percorro a piedi la spina dorsale cittadina, il Corso centrale che indica Firenze con la sua propaggine di est e a ovest traccia una linea diritta diritta verso Pisa. Qui una volta arrivava dal capoluogo di provincia un tram (la “Cammilla”: anche ai mezzi, avete visto, diamo un nome) e con esso (con lei!) le notizie, le merci e tutto ciò che all’inizio del Novecento entrava a Pontedera. Con noi sul corso si unisce il mondo del commercio, perché Pontedera è ùscio e bottega, è casa e negozio. Il venerdì è giorno di mercato e mi chiedo come facciano i turisti a saperlo, ché non mancano mai, loro che che si riempiono gli occhi di bellezza sui colli toscani e le borse della spesa a Pontedera.
Il gruppo si infittisce al proseguire della nostra passeggiata e si colora delle etnie che qui hanno messo radici (il kebab che segue a ruota un piatto di zuppa toscana non sarà letizia per il fegato, ma non lontano si produce un rosso che, alla bisogna, facilita il transito e rallegra i pensieri). Piano piano si snoda un girotondo intorno a questo piccolo mondo di provincia, nella piazza dove puntiamo il compasso del nostro orgoglio artistico. Tutti intorno ad Andrea! quello “vero”, però, che ha ispirato il nome del battello fluviale e se ne sta di bronzo al centro della piazza con in mano un fascio di fogli, regolo e scalpello, i suoi attrezzi del mestiere. Andrea da Pontedera (astenersi dal chiamarlo “Andrea Pisano”), orafo e scultore tra Trecento e Quattrocento, ha lasciato a Firenze i rilievi in bronzo del Battistero, ha dato una mano a Giotto sul Campanile, ha lasciato a Pisa altri due o tre lavoretti niente male, ha messo la firma sul Duomo di Orvieto e dato, infine, a Pontedera un altro piccolo motivo di vanto: i propri natali. Forse le ha strappato anche una promessa, quella di coltivare, tra Vespe e negozi, un po’ di amore per l’arte. Così chiudo il tour, imperfetto ed eccentrico, tra la folla di studenti che all’uscita da scuola passano davanti a centro metri lineari d’estro moderno d’autore, il muro allegro di mosaico che Enrico Baj ha lasciato a Pontedera a suggello della propria carriera artistica e che condensa una serie di esperienze espressive del Novecento. Fatelo voi un muro che unisce, se vi riesce…
Torno verso casa. Zona semicentrale, né centro né periferia. Lo avevo detto: bizzarria dell’imperfezione e viaggio imperfetto. Attraverso il ponte, schiena d’asino che trema un po’ al passaggio dei mezzi più pesanti. Lo aveva fatto costruire, dicono, Napoleone, in quei suoi pochi anni di onnipotenza locale. Quando la guerra lo mise giù, fu ricostruito tale e quale, per dare ai pontederesi la certezza, o l’illusione, di camminare su orme note e passi sicuri, tra due rive che si fronteggiano ma non si affrontano mai, se non per gioco. Domattina la mia città si sveglierà in un fiato di nebbia, nell’aroma di una torrefazione non più in città ma non lontana, con la processione dei pullman di studenti e con qualcuno di passaggio che si fermerà e ripartirà dicendo: “Pontedera. Non è bella, ma ci vivrei”.
Autore: Lucia Stefanini
Premio letterario "Racconta la tua città"
Copertina: foto di Fabrizio Angius via Flickr