La deviazione Gioia del Colle –Noci già restituisce l’idea della mia terra, delle mie parti, le mie davvero: pezzi di luoghi precisi che si incastrano, prendono posto dentro come organi di un altro corpo, meno visibile ma pulsante, un corpo fatto di terra mista all’aria e al sangue: il territorio. Più di tutto mi ha sempre fatta sentire a casa la prima grande masseria su una collina, dieci chilometri dopo Gioia del Colle, una specie di vedetta bianca con un grande fienile e le mucche a pascolare nei campi a primavera; io e mia sorella da bambine ci sfidavamo a contarle, nei minuti in cui passavamo di qui in auto, con mamma e papà. In questo punto, ogni volta lo sguardo si libera, come l’aria che incontenibile si infila dal finestrino aperto appena, ed è riconoscibile: sono a casa, nella mia Murgia.
Ci sono ancora qua e là i segni della nevicata recente: piccole macchie bianche tra zolle ed erba secca, come nuvole che disegnano un altro cielo, umido e terreno. Siamo davvero arrivati una volta individuata l’Abbazia della Madonna della Scala, centro del restauro del libro, un’oasi costruita intorno a una chiesina medievale del XII sec. Poi ancora colline e avvallamenti, chilometri di muretti a secco tra gli ulivi, le lame, gli anfratti nei boschetti di fragni, lecci e noci, le stradine sterrate che dall’asfalto si staccano come affluenti in secca, un invito a risalirli, per andare indietro, ai luoghi propri. Tutta questa ambientazione e i suoi solidi in prospettiva si aprono come le pagine di un libro pop-up, e io mi sento piccola di nuovo, anche perché lo sento in fondo a questo cappotto nero che mi mancano, mia nonna e la mia terra, un’estensione interiore ed esteriore insieme.
L’arrivo in paese è come una sveglia, o una frenata: Noci, sorto semplicemente intorno a un noce, dice la leggenda. La sua quotidianità ridotta in scala mi arriva addosso come un contrasto tra quella cittadina e caotica che mi porto addosso, e questa che mi porto dentro, al ritmo lento dei ricordi.
Noci è a metà strada, da tutto. Qui in mezzo alla terra di Murgia è un baricentro tra acqua e acqua, tra tarantino e barese, tra Ionio e Adriatico: il mare arriva con la mitezza del vento, l’aria perfetta da fiaba la senti anche nei frutti: albicocche, fichi e prugne nere, azaruele tra fine agosto e i primi di settembre, fichi d’india di porpora e ambra tra i muretti e nei campi, mele cotogne in pieno autunno. Qui capisci che non c’è luogo da cui Noci è lontano. Qui poco oltre i quattrocento metri sopra i mari, la terra sa coprirsi di neve sul serio quando è il tempo. Si è nel barese, ma dopo solo sei chilometri, seguendo la vecchia strada verso Martina Franca si è già nel tarantino, dove la valle d’Itria ti spalanca gli occhi, e da certi promontori si vede il Golfo di Taranto.
La chiesetta della Madonna degli Angeli è sempre lì, all’ingresso a sinistra, e la sua forma di trullo è come un saluto. Qualunque ingresso in questo paese ha una chiesa, come una protezione: da Alberobello San Domenico, da Mottola la Madonna della Croce, da Gioia e Putignano la Chiesa dei Cappuccini, dal mare Barsento.
Più avanti alcuni manifesti funebri su un cartellone per affissioni mi riportano al parabrezza, e alla ragione del mio essere qui. -Facciamo un giro? – chiedo, mentre chiudo gli occhi. Mio zio silenzioso si dirige verso il centro. La piazza è stata ristrutturata, diversa nella pavimentazione e nella viabilità che la circonda, sembra in parte alterata da un lifting, ma nei grossi tratti la riconosco, è il mio centro: i piccoli bar, i lecci in ordine perfetto, l’edicola, la fontana, le salumerie, le macellerie, le rivendite di prodotti caseari. Un presepe.
–Alle quattro! – sottolinea mio zio, lasciandomi.
Il feretro nella mercedes superelegante, troppo grande e moderna per una viuzza stretta del centro storico e bianca di calce, dà il via al corteo. Seguo la macchina con mia madre sottobraccio dietro le sue sorelle e i suoi fratelli. Le chianche, basole calcaree sfumate dal bianco al grigio, bagnate e alcune ancora ghiacciate di neve, spalata e deforme ai lati dei vicoli, minano il mio equilibrio, passo dopo passo. La macchina lascia la Chiesa Madre. Qui c’era un noce, e intorno fu costruita la chiesa, un impegno votivo di Filippo D.Angiò alla Vergine dopo essersi salvato da un temporale nei boschi circostanti. Era il 1316. L’auto raggiunge la Chiesetta del Purgatorio, sempre chiusa e utilizzata solo come anticamera per i defunti. La macchina scura, e cupa come un moscone al rallentatore, sembra strisciare e spaccare in due il silenzio freddo del centro storico con il suo ronzio. Il suo movimento sfiora e rivela al mio sguardo le vecchie botteghe di un tempo, quelle che mi hanno vista ragazzina passare tra sarte, pasticcere, falegnami e fabbri, corniciai, calzolai, ricamatrici, fornai. Fioriere su balconi e scale di fresca ristrutturazione danno a residenze antiche la forma di luoghi rivissuti, piccoli alberghi, e locande; evidenziano la bellezza degli scorci, la rarità delle gnostre, la nudità indurita dal tempo di certe pareti. Accendono l’aria di questo luogo piccoli ristoranti, quasi invisibili: gli stessi odori di ieri si prendono i respiri dei passanti, rianimandoli, e contrastano il passaggio del tempo nelle tradizioni mantenute. Oltre porta Barsento siamo fuori dal centro storico.
Nel tragitto a piedi verso il cimitero cerco di ripararmi dal vento con il cappotto, mentre i ricordi saltellano come per farmi festa da un angolo all’altro delle strade. Lasciate le ultime case e avvistati i cipressi si aprono i campi e la vasta distesa in parte innevata delle mie campagne che da quel lato del paese portano alla chiesetta abbaziale di Barsento, datata 591, dalla forma basilicale di età romanica, povera e meravigliosa. Proseguendo si raggiunge il Canale di Pirro, e così il mare. Prima del cimitero, a destra compare la piccola stazione, pochi binari onorati dai mandorli, un merletto a primavera. Una zona di partenza, mi dico (e di arrivo) pensando alla vicinanza – forse casuale, forse no – tra la stazione e il cimitero.
I cento cipressi finiscono, ed è arrivata l’ora: lasciamo nonna, sola, insieme ai fiori. Lungo il viale, fuori dal cimitero le nuvole spesse galoppano sopra i cipressi.
Arriviamo pochi per volta nella casetta di nonna, piccola come lei, e incastonata nel centro storico, con tutta lei dentro quasi solidificata negli oggetti, il prolungamento di tutte le sue azioni quotidiane. C’è ancora in cucina la sua focaccia, l’ultima cosa che ha preparato prima di addormentarsi, mentre fuori nevicava. È quella con gli sponsali, cipolle lunghe e dolcissime soffritte, unite alle olive nere e alle acciughe, e chiuse tra due strati di pasta frolla, quella sfrislent perché si sbriciola, fatta con la farina, l’olio, e il vino bianco di questa terra. A pezzi in un piatto di latta bianco con il bordo blu, messo sulla stufa a riscaldare, rilascia nell’aria l’odore di tutta la sua vita. Con la fronte schiacciata contro la piccola porta a vetri mi incanto guardando i tetti. Mi reggo a questo cibo come a un sorso d’acqua, ne ho bisogno, perché il mio corpo lontano da questa terra ora può sentirne l’eco nei morsi, senza limitarsi. Mastico e lascio andare le voci dei parenti. Oltre i vetri mi accorgo del buio. Fuori è già sera, mentre ricomincia a nevicare.
Autore: Antonella fiore
Premio letterario "Racconta la tua città"
Copertina: foto di Domenico Kluz via flickr